Friday, June 01, 2007

Labirintidi

Per quattro mesi ho fatto altro. E per altro, da neolaureato in Lettere, intendo poco in fondo, anzi poco in superficie. E per superficie intendo sulla terra ferma. Ognuno ha il proprio modo di shiftare (direbbe un mio amico che si è appena sposato) tra la terra ferma e il mare. Ognuno ha il proprio modo di capire quando è ora di tornare in mare, come nessuno meglio di Melville descrive nell'incipit di Moby Dick:

"Ogni volta che m'accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell'anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c'è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l'altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l'oceano. "

Ora, in questi mesi ho trascorso molto tempo con molte persone. Tra queste persone ci sono anche i miei migliori amici, gente strana, comunemente strana. Strani a se stessi, strani tra di noi, strani all'altro che incontrano. Eppure c'è qualcosa di comune, che ci permette di usare parole come fiducia, famiglia (per chi non ne avuta una normale, o in alternativa ad essa), ma definire questo comune d(en)ominatore - perché è qualcosa che ci domina e ci nomina, più di quanto noi dominiamo e nominiamo lui - è difficile. Parlo dei miei amici, ma è una riflessione che ognuno può spendere coi propri, è una fatto di tutti i giorni, che continua a stupirmi.

Nel pensiero DuePuntoZero - che minacciosamente assomilglia nello scriverlo, al Bipensiero di Orwell - accade che cerchi una cosa, magari su Wikipedia, e poi t'incammini per un link, come faresti per un viottolo secondario in una città medievale, che sò, Siena. E allora mentre cerchi la tua Piazza del Campo - nel mio caso il significato di "propriocezione" - finisce che svicoli per un piccolo linkettino blu che dice: "labirinto".

E scopri che ci sono dei pesci africani che hanno al loro centro un labirinto (Labirintidi), un organo che gli permette di respirare anche aria, di trascorrere un po' di tempo sulla terra. Eccoci, penso. Siamo noi, questi piccoli animali a bocca aperta. Così quando penso a R., che - pesce piccolo e muscolare - si spinge all'aperto, nelle pubbliche relazioni, nel precariato, nell'ansia da patentino sociale, vedo le branchie chiuse, e il suo labirinto in azione. E poi Z., che - mentre in mare scrive pensieri con piccole bolle, inventa lessico, produce parole, e tutti lo ascoltiamo in cerchio - sulla terra riproduce parole che non partecipa, grazie al suo labirinto riesce a non vomitare in faccia ai clienti l'inchiostro tossico da cui si sparpagliano i manuali universitari, gli opuscoli per ditte navali, i ciclostilati dei partiti. Et cetera et cetera. Quando li incontro, in superficie, vedo i lineamenti più o meno contratti, in base a quanto tempo mancano dal mare. Non ci diciamo molto, ci salutiamo a branchie strette, sicuri di rivederci sui fondali. E penso che in fondo il nostro labirinto è un organo che ci siamo costruiti toccandoci a vicenda, che ci permette di alimentarci di storie da portare al mare. Il labirinto che siamo ci protegge. I Labirintidi sono un po' ovunque, dall'Australia a Bologna, da Parigi alla Finlandia, si riproducono, mutano clima e abitudini, il solo modo per riconoscerli è toccargli la pancia. Se avvertite strane cartilagini cunicolanti, offritegli dell'acqua - verbale o fisica - e se vedrete distendersi il viso, aprirsi strane feritoie sui fianchi da cui escono strane voci, strani discorsi a cascata come bolle, eccoli.

Avviso ai naviganti: ci si vede in mare!

5 Comments:

Anonymous Anonymous said...

La propriocezione...affascinante. Ne sono venuta a conoscenza leggendo Oliver Sacks: ne "L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello" c'è un racconto dal titolo "La disincarnata", che tra l'altro inizia con una citazione da Wittgenstein, questa: - Gli aspetti di cose per noi importantissime sono nascosti a causa della loro semplicità e familiarità. (Si è incapaci di notare qualcosa perché la si ha sempre davanti agli occhi). I veri fondamenti di un'indagine non colpiscono mai chi la compie. -

Alto, altissimo mare. E non so se ho voglia di tornare a terra.

V.

8:56 PM  
Anonymous Anonymous said...

Ma di cosa parli?

2:44 PM  
Blogger Diana said...

Svegliarsi la mattina, farsi divorare dalle cose che ci stanno attorno; o lasciarsi filtrare dal noi più basso, dall'imo di noi, da un - chissà da dove - dissepolto noi.

Scoprirsi in un sottile interstizio di sé; sorprendersi sempre sopravvissuti, sul filo di un rasoio. Scoprire che è alla realtà più fragile sempre devoluto il più arduo e affilato compito: quello del "discernere".

Finché t'accorgi che la tua stessa vita non è che un progressivo "discernimento", una "critica" [> gr. Krinein] senza posa, l'anatomia di un testo che tu non hai mai scritto. Né vissuto.

12:35 AM  
Anonymous Anonymous said...

...non sarei originale,nè l'unica,ma è proprio un bel blog!

4:10 PM  
Anonymous Anonymous said...

leggere l'intero blog, pretty good

11:33 AM  

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